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Acqua in bottiglia. Uno scandalo sommerso.

Acqua in bottiglia. Uno scandalo sommerso di cui si ha poca consapevolezza, dalle gravissime ripercussioni ambientali e culturali, frutto di disinformazione e mistificazione e di una grave carenza di controlli istituzionali. In questo caso occorrerebbe una vera e propria inversione di tendenza.

I Paesi sfruttati, altrimenti detti compassionevolmente Paesi poveri da noi occidentali, soffrono la carenza di acqua potabile: la sete e le malattie causate dall’inquinamento dei pozzi rappresentano veri e propri flagelli che portano a morte milioni di esseri umani. L’acqua, non sarà mai inutile ricordarlo, è il problema vitale del presente e del futuro. Nell’Italia benestante l’acqua, oltre che essere un problema, è divenuta l’oggetto di
uno dei più stupefacenti casi di suggestione collettiva che la storia conosca: il fenomeno dell’acqua in bottiglia. Nel Sud del mondo, nelle realtà più povere, l’acqua corrente il più delle volte non è disponibile, perché non ci sono acquedotti, depuratori. Ci sono solo sorgenti, pozzi, acquiferi naturali presso i quali ci si reca periodicamente per fare scorta d’acqua. Questa è la realtà, per esempio, di molta parte del continente africano. In Italia la realtà è molto diversa: esistono gli acquedotti, l’acqua corrente è presente nel 98% degli edifici, e ci sono depuratori moderni che forniscono acqua pulita a intere città. Come in Africa, tuttavia, la maggioranza delle persone si reca periodicamente a fare scorta d’acqua: al supermercato. Perché? Il mercato dell’acqua in bottiglia non solo distrae l’opinione pubblica dal nucleo del problema che risulta essere invece quello della salvaguardia di un bene che deve rimanere pubblico (gli acquiferi naturali, laghi, fiumi, falde), ma mina alla radice le logiche della sostenibilità ambientale dal momento che enormi quantità di CO2 vengono prodotte a causa del trasporto su gomma delle centinaia di milioni di litri d’acqua, da un capo all’altro del Paese. Un altro aspetto assolutamente deleterio per il discorso energetico è rappresentato dall’impressionante numero di bottiglie di plastica che vengono continuamente prodotte e riciclate ad un ritmo vertiginoso, tanto vertiginoso che le imprese di smaltimento stentano a seguirne il passo, ed è così che, ogni tanto, assolutamente per caso, e in maniera evidentemente fortuita, i depositi di plastica vanno stranamente a fuoco. Ci avete fatto caso? Per queste ragioni, l’acqua minerale è stata inclusa tra gli otto mali che affliggono l’acqua in Italia nel controforum organizzato a Firenze negli stessi giorni del Terzo forum mondiale dell’acqua che si è tenuto a Kyoto nel marzo 2003. L’acqua minerale in effetti è un male, e non andrebbe comprata, e l’unica ragione che potrebbe giustificarne ulteriormente il consumo, cioè la sua pretesa purezza rispetto all’acqua di rubinetto, è crollata sotto il peso dei controlli e della legislazione vigente. Proviamo quindi a fare luce su tre aspetti legati a doppio filo con il fenomeno tutto italiano delle acque minerali, sulla base del “Rapporto sullo stato delle acque in Italia”, a cura di Riccardo Petrella, presidente del Comitato italiano del contratto dell’acqua.

L’acqua in bottiglia non è più pura di quella di rubinetto. Anzi, l’acqua minerale potrebbe essere contaminata e pericolosa per la salute. Anzitutto l’acqua minerale non è considerata dal legislatore un’acqua potabile, ma
come un’acqua terapeutica in ragione di certe caratteristiche fisico-chimiche che ne suggeriscono un uso per fini specifici. Per queste ragioni è consentito alle acque minerali di contenere sostanze come l’arsenico, il sodio, il cadmio in quantità superiori a quelle consentite per l’acqua potabile.

Mentre non è permesso all’acqua potabile di avere più di 10μg/l (microgrammi per litro) di arsenico, è frequente che la maggior parte delle acque minerali siano contenute 40/50μg/l di arsenico senza l’obbligo di dichiararlo sulle etichette. Lo stesso vale per altre sostanze. Una clamorosa omissione che può essere pericolosa per la salute di chi beve acqua minerale per anni senza controllo medico. Ricordiamo, inoltre, che nel febbraio 2000, l’Italia ha ricevuto un ammonimento da parte della Commissione dell’Unione europea, perché i valori massimi previsti per alcune sostanze tossiche e indesiderabili nelle acque minerali italiane erano superiori alle norme imposte a livello comunitario. Per capire cosa rischiamo sarà sufficiente dare una occhiata alla tabella.

L’acqua in bottiglia è un business ai danni dello Stato. L’acqua minerale è molto più cara dell’acqua di rubinetto: dalle 300 alle 600 e persino 1000 volte più cara. Secondo gli ultimi dati, derivati da un’inchiesta della Federconsumatori, il costo medio in Italia di 200 metri cubi d’acqua potabile, corrisponde al consumo medio di una famiglia, è pari, nel 2000, a 361.269 lire annue, cioè 1806 lire al metrocubo (0.93 euro). Un guadagno di dimensioni colossali: ma l’acqua non è un bene demaniale, e quindi, secondo quanto recita la legge Galli del 1994, parte del patrimonio inalienabile delle Regioni? E quanto costa una concessione per lo sfruttamento di questo bene? Poco, molto poco, dato che le regioni hanno ceduto il diritto di gestione delle acque minerali a tariffe incredibilmente basse. Quindi, non è così insensato affermare che lo sfruttamento di questo bene avviene con il formale nulla osta delle autorità pubbliche. Il caso della Lombardia: nel 2000 a fronte di 8 miliardi di litri di acqua estratti, la regione Lombardia ha incassato ben (si fa per dire) 300 milioni di lire, una miseria rispetto agli incassi delle imprese private. Inoltre, la bottiglia in plastica fa risparmiare le imprese ma grava sulle casse pubbliche. Il costo di una bottiglia in PET è di circa un cent contro i 25 cent per una bottiglia in vetro. I costi dello smaltimento ricadono invece sulle regioni che spendono di più di quanto incassino dai canoni delle concessioni di sfruttamento delle fonti. Profitto per le imprese, indebitamento per lo stato. Il rogo dei depositi (accidentale, ovviamente) è uno dei tanti modi per tagliare i costi di smaltimento.

Non appare sorprendente quindi l’impegno delle multinazionali sul fronte delle acqua minerali: il consumo insensato di acque minerali in Italia è sostenuto da imponenti e costose campagne pubblicitarie. Il business dell’acqua minerale è chiaramente un business a forte concentrazione industriale e finanziaria. Il grande business delle minerali in Italia è infatti saldamente nelle mani della Nestlé e della Danone. Nestlé (multinazione svizzera) e Danone (francese) sono rispettivamente la numero uno e la numero due delle imprese mondiali d’acqua imbottigliata. Da sole rappresentano più del 30% del mercato mondiale. Nestlé possiede più di 260 marche d’acqua minerale in tutto il mondo, fra cui Vittel, Contrex, Terrier (la più importante del mondo) e le italiane San Pellegrino, Lievissima, Panna. Fanno parte invece della Danone: Ferrarelle, San Benedetto (Guizza). L’acqua in bottiglia è solo il primo stadio di un processo. Business chiama business, e i colossali profitti che le multinazionali dell’acqua in bottiglia stanno realizzando solo lo stimolo per un ulteriore fase del processo: privatizzare l’acqua del rubinetto. Se lo stato italiano non solleva alcuna obiezione economica, politica, sociale, etica e risulta essere così tonto (o complice?) da permettere profitti così alti, e se la popolazione, debitamente disinformata, è così disponibile a comprare acqua, allora perché non vendergli anche quella del rubinetto, e a caro prezzo? Perché le imprese private non dovrebbero prendersi cura anche dei servizi idrici? Arezzo è stata la prima città italiana a indire una gara d’appalto, vinta dalla Suez Lyonnaise Des Eaux che ora ha la concessione degli impianti. E numerose città italiane stanno facendo lo stesso. Con che effetti sulla bolletta e sulla qualità dell’acqua rimane tutto da vedere.

Ma l’acqua di rubinetto molte volte è già arrivata sugli scaffali dei supermercati. Attirate dagli alti livelli di profitto e dalla allettanti promesse future del business acqua, potenti imprese come la Coca Cola sono entrate anch’esse nel settore introducendo un nuovo tipo di “acqua da bere”, l’acqua purificata. L’acqua “purificata” non è altro che acqua d’acquedotto sottoposta ad alcune operazioni di demineralizzazione e di declorizzazione. Passo dopo passo, il legislatore ha autorizzato anche in Italia la vendita in bottiglia dell’acqua di rubinetto. Una grande confusione caratterizza sempre più il business dell’acqua composto da un numero crescente di tipi d’acqua: acqua potabile di rubinetto, acqua da tavola (si tratta di acque potabili in bottiglia), acqua potabile in bottiglia “naturale” con aggiunta di anidride carbonica, acqua “purificata”, acqua naturale minerale (acqua minimamente mineralizzata, acqua oligominerale, acqua minerale terapeutica), acqua di sorgente (cioè acqua potabile prelevata alla fonte ma che non può essere clorata. Tutte le acque minerali sono di sorgente ma non tutte le acque di sorgente sono minerali), acqua di sorgente “naturale”, acqua di falda.

E in questa confusione sbucano anche imprese che con l’acqua non hanno mai avuto alcun rapporto, come la Parmalat che, per esempio, ha messo recentemente sul mercato una sua acqua in bottiglia, l’acqua Parlamat. E’ chiaro che tutti vogliono entrare nel grande affare delle acque minerali, perché i profitti in gioco sono enormi. Ma fino a quando? Tutto ha una fine. Un po’ a causa del caro Euro, un po’ in virtù di una accresciuta cultura relativa al problema, i cittadini stanno imparando a rinunciare all’inutile acqua minerale, semplicemente girando un rubinetto, o magari ricorrendo ad alternative tecnologiche a basso impatto economico come per esempio l’installazione di un piccolo depuratore casalingo.

Forse per l’acqua in bottiglia vale il principio della critica dei consumi rispetto a quello del consumo critico. Non spetta a noi indicare questa o quella impresa distributrice di acque minerali da sottoporre a boicottaggio, ma è nostra responsabilità quella di modificare i nostri stili di consumo con l’obiettivo di non assecondare un disegno generale finalizzato alla privatizzazione di un bene pubblico e vitale come l’acqua.

I dati riportati sono tratti da un libro pubblicato di recente sull’argomento, e che consigliamo a tutti. Si tratta di Giuseppe Altamore, Qualcuno vuol darcela a bere, Fratelli Frilli editori, 2003.